1347 - La peste nera
Nel 1347 l’emergenza della peste nera fu affrontata dai medici di allora attingendo alla fonte comune di Ippocrate e Galeno, il più delle volte accapigliandosi senza costrutto. Da qui la nascita degli Uffici di Sanità con poteri amministrativi, una specie di periti peritorum che, con decisioni dettate da buon senso più che da una vera e propria conoscenza scientifica, cercarono di arginare il dilagare senza limiti di quella gravissima pandemia. Nella nostra penisola lo Stato di Milano, con poteri più coercitivi, riuscì, meglio di Venezia guidata da una oligarchia commerciale, a reggere l’urto dell’epidemia, facendo rispettare con forza la pratica della quarantena e con un controllo pressoché totale su tutti gli aspetti della vita ordinaria.
La peste nera e prima crisi del paradigma ippocratico-galenico
In Europa nell’ottobre del 1347 si affaccia improvvisamente la peste.
Proveniente, molto probabilmente, dai focolai originari della Cina sudorientale e trasportata nelle steppe centro asiatiche dopo il 1252 in occasione dell’invasione mongola dello Yunnam e della Birmania1, tale flagello arriva attraverso la Via della seta sulla costa nord del Mar Nero.
Per riflettere sulle sue modalità trasmissive è emblematica la vicenda dell’assedio mongolo nel 1346 della città di Caffa, l’odierna Teodosia (Feodosija), sulla costa sudorientale della penisola di Crimea. “L’anno precedente, un esercito di Kipchak al servizio del Khan Janibeg [...] stava assediando la città quando una spaventosa pestilenza scoppiò proprio tra le fila dei soldati mongoli. Dato che la malattia avanzava rapidamente, il Comandante decise di porre rapidamente fine all’assedio prima che il suo esercito ne fosse decimato. In quella che sembra proprio la prima applicazione del concetto di ‘guerra biologica’, il Comandante mongolo fece catapultare i cadaveri delle vittime della peste oltre le mura nella città”2.
Da qui, attraverso i mercanti genovesi in fuga, dapprima a Pera, colonia genovese nei pressi di Costantinopoli, per poi arrivare a Messina e a Marsiglia, la peste si incamminò nell’entroterra italiano e francese, da dove ad ondate successive salirà ovunque verso le contrade dell’Europa centrale e del nord, raggiungendo la Groenlandia e la penisola scandinava nel dicembre del 1350.
Nel nord Europa la pestilenza verrà chiamata mors atra, da cui metaforicamente peste nera, che alcuni storici della medicina attribuiscono al colore dei bubboni o all’aspetto del sangue espulso dai malati con le loro emottisi.
La peste nera oltre a devastare gli individui, le famiglie, i gruppi sociali e produttivi colpisce in profondità credenze, valori e l’immaginazione: essa determina un vero e proprio shock antropologico.
L’effetto è devastante: circa un quarto della popolazione europea del tempo (stimata da 17 a 28 milioni) muore, con punte più alte in genere nelle città più popolose e maggiormente esposte ai traffici commerciali. Dal 1347 le esplosioni epidemiche di peste si susseguiranno periodicamente con una ciclicità attorno ai dieci anni per oltre tre secoli.
Ora noi sappiamo a che la peste è conseguente all’infezione da Yersinia pestis, un batterio che viene trasmesso: o indirettamente per puntura di ectoparassiti ematofagi: pulce del ratto (Xenopsylla cheopis) e pulce dell’uomo (Pulex irritans); oppure più raramente per contatto diretto con animali infetti (morsi) o per inalazione di goccioline respiratorie emesse da malati con la forma polmonare.
Nell’accezione più rigorosa la peste è una zoonosi: una malattia infettiva trasmessa da animali vertebrati all’uomo, e in quella più ampia è una malattia comune agli animali e agli uomini il cui agente patogeno circola all’interno di alcune popolazioni di animali selvatici in focolai primari che, rompendo il loro isolamento, possono dare origine a focolai di peste urbana, chiamati anche focolai secondari o temporanei.
“La peste urbana si manifesta all’interno delle popolazioni di ratti sinantropi (ratto nero e ratto marrone) e di altri ospiti animali suscettibili all’infezione (gatti selvatici e domestici, cani, conigli, lepri, coyotes, cammelli, capre, daini, antilopi) che vivono a contatto con l’uomo”3. Focolai naturali (primari) di peste persistono attualmente in America del nord e del sud, in Africa ed in Asia e, in certa misura nell’Europa sud-orientale (nelle zone circostanti la depressione intorno al mar Caspio e lungo le pendici orientali del Caucaso).
“Nel 1347 in Europa, all’apparire della peste, i medici ‘brillarono’ per la loro impotenza, nonostante lo splendore delle università e l’intensità dell’insegnamento (peraltro puramente teorico) che esse dispensano: [...] il rispetto dei testi di Ippocrate, Galeno o Avicenna non permette a nessuno di allontanarsi dalla concezione dei quattro umori fondamentali del corpo umano. La malattia è dunque causata da un loro squilibrio che si cerca di correggere”4.
La medicina ufficiale, quella che si basava sull’armamentario ippocratico-galenico, mediato dalla logica e dalla filosofia finalistica della natura di derivazione aristotelica, si dimostrò totalmente inadeguata ad affrontare il problema.
“Nello schema fisiopatologico ippocratico-galenico tutte le malattie, dunque anche quelle epidemiche come le pestilenze, sono dovute ad una alterata crasi degli umori. Questo squilibrio, o ‘discrasia’, può estrinsecarsi anatomicamente, in forma generale o locale, oppure funzionalmente, colpendo questa o quella facoltà. Esso ha sempre le sue regole, attinenti alla quantità e qualità degli umori circolanti e ai loro vari condizionamenti, interni o esterni; e ha sempre le sue preferenze costituzionali e temperamentali, la sua distribuzione geografica, la sua cadenza cronologica per periodi e giorni critici”5.
In questo frangente la dottrina aerista esprime, coerentemente con il paradigma ufficiale, il massimo tentativo di razionalizzare il fenomeno peste, allorquando fa appello al passo ippocratico presente nel La Natura dell’Uomo il quale dice “che quando invece si è formata un’epidemia di una sola malattia è chiaro che non il regime ne è la causa, ma ciò che respiriamo, questo è la causa, ed è chiaro che ciò arreca qualche morbosa esalazione”.
Però l’uso, fin da subito, di coprire di calce le fosse comuni dove venivano gettati i cadaveri degli appestati mostra, in questa circostanza come in altre che vedremo in seguito, più la determinazione da parte delle autorità civili di seguire il senso comune incline a ritenere la malattia contagiosa rispetto alla piena condivisione della dottrina medica ufficiale.
Afferma al riguardo L. Gatto che “le fosse comuni per seppellire appestati, lebbrosi, colerosi, malati di tifo, morti in guerra, sono sigillate con la calce”6.
“Tra tutte le categorie una delle più colpite fu quella del personale sanitario: quasi tutti i medici e gli addetti agli ospedali vennero travolti dall’epidemia, e ciò fece proliferare una quantità di falsi medici”7.
Di fronte alla catastrofe, spiegata dai medici comunque a partire dal fondamentale paradigma degli umori pur se variamente declinato, i responsabili della cosa pubblica, gli amministratori, erano “dell’idea come già accennato che la peste fosse una malattia contagiosa, non una febbre causata dall’aria cattiva”8.
J-C. Sournia avvalora questa tesi nella sua Storia della medicina parlando del Fracastoro, quando afferma che al suo tempo “da quasi mille anni il popolo ed i pubblici poteri ammettevano il ruolo del contagio nella diffusione di una malattia”9.
A tal proposito G. Calvi afferma che “la vera produttività in campo epidemiologico non è quella della scienza medica ma quella degli Uffici di Sanità. […] Estranei alle dispute accademiche, gli ufficiali sanitari solo in minima parte medici si orientano in base a un corpus di conoscenze prodotte dalla pratica e sedimentate attraverso l’esperienza”.
Peraltro i due esempi che seguono evidenziano i risultati più contrastanti dei provvedimenti all’uopo presi dalle pubbliche autorità in Italia.
Secondo W. Naphty, Venezia, con il 60% di vittime (tra 72000 e 90000 su una popolazione precedente di 120000-150000 abitanti), “prese rapidamente delle misure per limitare l’impatto dell’epidemia [...] impose a tutti i vascelli in arrivo di rimanere alla fonda per un periodo di 40 giorni (da cui il termine di quarantena) [... ed] individuò alcune isole disabitate come i cimiteri, dove i corpi dovevano essere interrati ad una profondità di almeno un metro e mezzo. [Ma] nonostante la pronta adozione di tali misure, la presenza di barriere naturali difendibili e la più rigida delle quarantene, la città non solo non riuscì a controllare o arrestare l’epidemia ma patì uno dei tassi di mortalità più elevati tra le grandi città.
Milano al contrario ebbe solo 15000 morti su 100000 abitanti. La città era piuttosto grande, per gli standard dell’Italia settentrionale, ma era priva delle eccellenti barriere d’acqua che possedeva invece Venezia. Possiamo congetturare, tuttavia, una serie di differenze rispetto a Venezia: in primo luogo il governo di Milano era tenuto saldamente in mano da una potente famiglia autocratica che predispose prontamente il controllo dell’ingresso di persone e di merci in città. Nonostante i massimi esponenti della medicina affermassero che il morbo si diffondesse attraverso i miasmi, lo Stato milanese determinò che si trattava di una malattia contagiosa e agì di conseguenza. Ad esempio, ogni famiglia che manifestasse sintomi d’infezione veniva rinchiusa nella sua abitazione, e poteva approvvigionarsi solo mediante canestri appesi a corde.
Per tradizione, si ritiene che in ciò risieda una delle principali spiegazioni del numero relativamente basso di vittime milanesi. Ma è sufficiente un esame superficiale per concludere che, a prescindere da quelle che il governo veneziano riteneva ufficialmente le cause della peste, le misure prese da quest’ultimo avrebbero dovuto essere altrettanto efficaci di quelle milanesi contro il contagio. Si può dunque azzardare un’altra spiegazione: Milano, con il suo esteso entroterra rurale, disponeva di luoghi in cui molti dei suoi cittadini potevano rifugiarsi, mentre Venezia, rinchiusa nelle sue sovraffollate e umide isole, era un terreno di coltura ideale per il morbo. In realtà, nessuna spiegazione adeguata del minor tasso di vittime a Milano è stata ancora formulata”10, anche se è da dire che la pratica della quarantena riuscì a preservare dal contagio intere regioni. Parecchie città non contaminate interrompevano ogni rapporto con l’esterno, vietando l’ingresso a persone e prodotti provenienti da aree potenzialmente infette. Così si spiega il fatto che in una stessa area alcune città denunciassero un’altissima mortalità, mentre in altre non si registravano anomalie di sorta. è poi da aggiungere che molti grandi Stati monarchici come, ad esempio Francia ed Inghilterra, subirono più dell’Italia gli effetti della peste pur comprendendo l’importanza delle misure contro l’epidemia, per la ragione che tali misure richiedevano il superamento di molti ostacoli, più agevoli da superare da parte delle città-stato italiane. Le autorità pubbliche italiane, preoccupate di mantenere la sopravvivenza stabile e ordinata della società, non si fecero scrupolo della circostanza che “l’enorme estensione dei controlli ufficiali nelle vite e negli affari dei cittadini avrebbe portato a una grave limitazione delle loro attività e delle loro tradizionali libertà. [...] Dalla culla alla tomba, gli Stati italiani cominciarono a ispezionare, registrare e controllare numerosi aspetti della vita ordinaria. La peste non fu controllata, ma la società sì; la sanità divenne un alibi dell’ordine”11.
Dovendosi cimentare con il terribile morbo, la medicina non ne capiva l’eziologia, come del resto di nessun’altra malattia infettiva. E questo perché partiva da presupposti sbagliati. Metodologicamente, quando si analizza la realtà, per quanto sperimentalisti si possa essere, si parte sempre da un paradigma interpretativo. A quei tempi il paradigma era quello di Galeno. E per quanto qualche medico potesse fare delle osservazioni corrette (pericolosità di lane, tappeti, vestiti, superfici pelose; maggior frequenza delle epidemie nei mesi caldi), queste servivano solo a dar ragione al paradigma sbagliato. Così toccare vestiti, tappeti ed altri effetti degli appestati poteva significare entrare in contatto con il miasma della peste, in quanto elemento appiccicaticcio. Così pure l’estate era temuta perché i miasmi si sarebbero diffusi meglio dalle paludi con il caldo. Questo vuol dire che non è sufficiente affinché una teoria sia vera che essa possieda solamente una sua congruità logica interna.
Una massima di François de Salignac de La Mothe-Fénelon (1651-1715) recita: la maggior parte degli errori degli uomini non viene tanto dal fatto che essi ragionano male a partire da princìpi veri, ma piuttosto perché ragionano giusto a partire da principi falsi o da giudizi inesatti.
I medici di allora erano anche filosofi forniti di logica rigorosissima, che tuttavia utilizzavano per sorreggere una impalcatura paradigmatica che non reggeva di fronte alla realtà refrattaria alle terapie e ai metodi prevenzionali accademici. Purtuttavia, come si vedrà nel XIX secolo, il modello Galenico terrà banco per decenni anche dopo le scoperte di Pasteur.
Salassi, purghe, rimedi vegetali, nulla riusciva ad ostacolare la malattia. Cavare il “sangue cattivo” divenne uno dei capisaldi della terapeutica medievale, nonché uno dei rimedi più utilizzati contro la peste, e nello stesso tempo accelerante della fine. Apparentemente curioso era l’ammonimento secondo il quale “prendere un bagno è cosa assai dannosa, poiché l’acqua schiude i pori del corpo e per tale via l’aria corrotta penetra in noi, fortemente alterando i nostri umori”, ma in linea con la fisiologia della respirazione mutuata dal Timeo (79 a-c) di Platone, secondo cui l’apertura dei pori contribuisce alla circolazione dell’aria all’interno del corpo.
L’unica difesa era la fuga il più lontano possibile senza fretta di tornare, già nei fatti adottata da Galeno anche se difforme dalla sua teoria o paradigma. Divenne il “Cito, longe, tarde: quasi una formula magica per scampare alla peste. ...Fuori dalle città murate e dai loro effluvi pestilenziali, le campagne sembravano offrire un idillico rifugio contro il contagio. Questa fu anche la scelta dei dieci giovani narratori del Decamerone di Boccaccio”12.
“Al di là del totale buio eziologico e terapeutico, nella trattatistica contemporanea resta comunque apprezzabile lo sforzo di porre l’epidemia in relazione con la mancanza d’igiene nelle città, con la putrefazione delle materie organiche e con l’influsso dell’umidità e della calura. Nel 1350 le autorità municipali di Parigi raccomandavano ai cittadini di evitare di far transitare branchi di porci nel centro cittadino. Altre importanti città intervennero in materia di fognature, pavimentazione stradale, illuminazione e, sia pure limitatamente, raccolta di rifiuti. [...] soprattutto in Italia, strade più ampie, piazze spaziose e fontane nei punti strategici divennero elementi caratteristici del paesaggio urbano.
“La prima cloaca di Parigi entrò in funzione nel 1356, ma l’abitudine di scaricare le immondizie negli appositi smaltitoi pubblici si generalizzò solo qualche secolo più tardi. [Ad ogni buon conto] dopo la peste numerosi municipi proibirono la circolazione di bestiame per le strade urbane e lo scarico delle interiora nei fiumi”13.
Fonti / Bibliografia
Tratto da: Due millenni di epidemie: miasmi o microbi? Saggio sul percorso bimillenario di due paradigmi patologici contrastanti.
Per gentile concessione dell’autore, Giovanni Andrea Avanzi © Copyright 2015
- G. Rezza, Epidemie, Roma, Carocci, 2010, p. 43.
- R. Marshall, Tempesta dell’Est, Vicenza, Neri Pozza, 2001, pp. 253-254.
- R. Bianucci, La peste: aspetti storici e paleopatologici, Torino, Congresso Regionale Sivemp, 2005
- J.C. Sournia, Storia della medicina, Bari, Dedalo, 1994, p. 113.
- G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Bari, Laterza, 1987, p. 18.
- l. Gatto, Il Medioevo giorno per giorno, Roma, Newton Compton, 2003, p. 432
- A. Blanco, La Grande Peste, Milano, Fenice 2000, 1995, p. 60.
- W. Naphy, A. Spicer, La peste in Europa, Bologna, il Mulino, 2006, p. 52.
- J.C. Sournia, Storia..., cit., p. 260.
- W. Naphy, A. Spicer, La peste..., cit., pp. 29-30.
- W. Naphy, A. Spicer, ibidem, p. 66.
- A. Blanco, La Grande..., cit., pp. 42-43.
- A. Blanco, ibidem, pp. 38-39.